Artista classe 1989, Alessandro D’Aquila indaga da anni i limiti della comunicazione e la percezione del linguaggio, spesso spingendo lo spettatore in territori di ambiguità e disorientamento
Abbiamo incontrato l’artista contemporaneo Alessandro D’Aquila per la prima volta nel 2013, quando il suo lavoro sperimentava con il braille e con l’idea di “comunicare senza realmente farlo”. Da allora, il suo percorso artistico ha continuato a evolversi, mantenendo intatta la volontà di mettere in discussione ciò che diamo per scontato!
Appassionato da sempre di arte contemporanea e comunicazione visiva, i suoi “paesaggi sintetici” – ridotti a semplici forme di colore – nascono dal desiderio di rendere la comunicazione più inclusiva, annullando il privilegio della vista e restituendo al pubblico un senso di smarrimento: lo stesso che si prova di fronte a una scritta in braille, apparentemente indecifrabile ma fortemente evocativa.
Lo abbiamo intervistato in occasione della sua nuova mostra personale “Nel Buio“, a cura di Matteo Mauro, presso Galleria Monopoli di Milano che si terrà dal 7 al 20 maggio 2025.
1. Ti abbiamo conosciuto diversi anni fa per il tuo approccio spiazzante e rigoroso, capace di mettere in crisi i codici della comunicazione visiva. Le tue opere giocavano sull’ambiguità, sul non detto e sull’impossibilità di comprendere la realtà delle cose. Oggi, a distanza di anni, come ti definiresti a livello artistico? Cos’è cambiato nella tua arte?
In questi anni ho continuato a fare ricerca sul linguaggio braille. Sicuramente l’impossibilità di leggere è rimasta il fulcro del mio lavoro, che porto avanti cercando sempre nuovi metodi per rappresentare il concetto. Con questa serie di lavori, le “Tavole Ottometriche Poetiche”, indago la nostra incapacità di leggere la poesia al giorno d’oggi.
2. La tua nuova mostra personale si intitola “Nel buio” (Galleria Monopoli di Milano, dal 7 al 17 maggio 2025). In passato ci hai raccontato del tuo interesse per la cecità come metafora dell’incomunicabilità. A distanza di anni, cosa significa per te il “buio”? È ancora un luogo di spaesamento, o ha assunto nuovi significati?
Il buio rappresenta sicuramente il punto di partenza per ogni lavoro. Infatti, per questo motivo, ho scelto di aprire la mostra con una frase, parzialmente decomposta in braille, che dice: “Nel buio nascono le cose più luminose”. Ed è proprio questo il concetto alla base della mostra, ossia il buio della conoscenza contrapposto alla luminosità dei testi poetici, che dovrebbero indicarci la strada, e ringrazio la Galleria Monopoli e il curatore Matteo Mauro per avermi dato questa opportunità.
3. Il titolo “Nel buio” potrebbe essere letto anche come un invito alla sospensione, al silenzio. Cosa chiedi allo spettatore che entra in questo spazio espositivo?
Chiedo sicuramente di lasciarsi andare alle sollecitazioni dei lavori e ai ricordi dei testi poetici. Ogni poesia è stata scelta per indagare un aspetto umano, restituito anche dall’opera, dalla sua luce e dalla tecnica utilizzata.
4. In “Nel buio” continua la tua ricerca sull’ambiguità del messaggio visivo. Come ti sei posto rispetto all’evoluzione del pubblico? In un’epoca di immagini sempre più rapide e accessibili, pensi che il tuo lavoro riesca ancora a spiazzare, o stai cercando nuove modalità?
Sicuramente l’elemento di “disturbo” del braille utilizzato nell’arte visiva è un paradosso che continua a spiazzare, ancora di più perché utilizzato per un oggetto archetipo dell’esame della vista. Inoltre, lo spettatore deve indagare sui versi delle poesie usate e, quindi, tornare ai ricordi che ha degli autori e dei testi. È un viaggio non solo visivo ma anche interiore.
5. Uno dei tuoi motti sembrava essere “comunicare senza realmente farlo”. Con “Nel buio” sei riuscito a spingerti ancora oltre questo confine? Oppure senti che in qualche modo la tua opera stia oggi cercando di “dire” qualcosa in più, anche a costo di farsi comprendere?
Utilizzando oggetti che sono di uso comune, come gli ottotipi, cerco di dare sempre di più una comfort zone all’osservatore, facendolo sentire davanti a qualcosa che conosce. Di contro, però, cerco l’incomunicabilità attraverso la decomposizione dei testi, chiedendo all’osservatore uno sforzo in più per comprendere l’opera.
6. Già nella nostra precedente intervista del 2013 parlavi del linguaggio braille come “mezzo per comunicare l’illeggibilità”. A distanza di anni, come si è evoluta questa ricerca? Il braille è ancora presente nei tuoi lavori?
Assolutamente sì, resta lo strumento principale del mio lavoro per creare quel contrasto di cui ho bisogno per attivare gli altri sensi. Vivevamo e, si può dire, viviamo ancora di più in un’epoca in cui siamo in grado di conoscere qualsiasi cosa, grazie anche all’intelligenza artificiale. Per questo ho la necessità di creare un limite per poter comunicare un concetto.
7. Hai fatto un uso originale del linguaggio braille, non come strumento di accessibilità ma di esclusione provocatoria. Hai mai sentito il rischio che questo approccio potesse essere frainteso? E oggi come ti relazioni a questi linguaggi “altri”?
Rispetto tantissimo ogni tipo di disabilità e sempre di più cerco di rendere le mie opere anche accessibili. Ogni “Tavola Ottometrica Poetica” è anche tattile e questo, per me, è fondamentale per comunicare anche che si può arrivare alla conoscenza di un testo poetico attraverso la cooperazione e la comunione di intenti.
8. I tuoi studi in economia ti avevano portato a riflettere sulla “verità nascosta” dietro ogni sistema. Questo sguardo razionale e lucido ti accompagna ancora nel fare arte? Pensi che oggi la tua produzione abbia anche una funzione etica, sociale?
Penso che i miei studi abbiano formato la mia idea critica di società: la geopolitica e l’economia internazionale non possono non influenzare il lavoro di un artista se vuole parlare della contemporaneità. Quindi sicuramente attingo ai miei studi per comunicare qualcosa di attuale.
9. In “Nel buio” ci sono opere che per te rappresentano una svolta? Un rischio? Quale tra tutte ti ha messo più alla prova – tecnicamente o emotivamente?
L’opera “Non ti sento” è sicuramente quella più forte e parla della nostra richiesta di una parola divina e della continua attesa che però non viene mai esaudita. Con questa “Tavola Ottometrica Poetica” e l’inginocchiatoio su cui ho scritto in braille “non ti sento”, cerco di rappresentare la fede umana e la nostra continua aspirazione a qualcosa di più grande.
10. Ti capita mai di rileggere lavori del passato e sentirti distante da quel te stesso? Come ti relazioni con le tue “vecchie” opere?
Ogni artista ha un rapporto di amore e odio verso il passato. Penso che i miei vecchi lavori siano stati fondamentali per raggiungere quelli di oggi. Non bisogna mai pentirsi di quello che si è fatto ma trovare nuovi modi per esprimere i concetti.
11. Nella nostra ultima domanda di dieci anni fa ti chiedevamo dove ti vedevi nel futuro. Questa volta ti chiediamo: rispetto a dove credevi di arrivare, sei più avanti, più indietro o semplicemente da un’altra parte?
Sono esattamente dove volevo essere: nel mio studio lavorando ad esposizioni in gallerie e ambienti pubblici e cercando di veicolare il mio concetto in maniera più matura. Penso che in questi anni, ogni singolo passo sia stato fondamentale per essere dove sono ora.
Se questa intervista ti è piaciuta e vuoi scoprire di più sull’evoluzione di questo artista emergente nel panorama dell’arte contemporanea, ti invitiamo a leggere anche quella del 2013, pubblicata in due parti; nella prima parte si indagano arte e lavori dell’artista emergente, mentre nella seconda le prospettive artistiche di Alessandro. Un’occasione per osservare da vicino come si è trasformato il suo linguaggio artistico nel tempo!